LE FORME DI PRODUZIONE SUCCESSIVE |
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NELLA TEORIA MARXISTA . 1960 - 1980
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1. IL PROCESSO DI ACCUMULAZIONE DEL CAPITALE Dobbiamo ora analizzare il processo di genesi del capitale che ha formato la sua struttura economica, base di tutti i rapporti sociali e della forma di appropriazione dell'epoca borghese. Alla fine del capitolo sulle Forme dei Grundrisse, sul quale continuiamo a fondare la nostra dimostrazione, Marx cita diversi esempi dell'accumulazione che illustrano in maniera assai semplice il processo fondamentale di dissoluzione degli elementi del modo di produzione feudale a mezzo del denaro, la loro dispersione e quindi la loro riunione e concentrazione attraverso la mediazione dello stesso denaro trasformatosi in capitale passando dalla circolazione nella produzione. Il grande proprietario fondiario monetizzato Questa prima fase è teorizzata dai fisiocratici: la classe produttiva, o classe realmente attiva, si trova nell'agricoltura: fittavoli e lavoratori agricoli, il cui lavoro lascia un'eccedenza (plusvalore) che viene appropriato dalla classe (dominante) comprendente i proprietari terrieri e il personale da essi dipendente, il principe e in generale i funzionari pagati dallo Stato, e infine la Chiesa, nella sua qualità di ente che si appropria la decima. Per spiegare la transizione dal proprietario fondiario di tipo feudale al proprietario fondiario di tipo capitalista, Marx parla di imborghesimento, infatti la figura centrale che dà vita nell'agricoltura alla produzione capitalistica è presa dalla cancrena del denaro del mercante che fa passare il proprietario terriero nel mondo borghese del valore di scambio. Marx dà, in primo luogo, l'esempio dei grandi proprietari fondiari inglesi che licenziarono i loro seguiti (feudali) che consumavano insieme a loro il plusvalore estorto ai servi, mentre i loro fittavoli cacciavano i contadini dai loro campi e capanne: in questo modo venne gettata sul mercato del lavoro una grande massa di forze di lavoro vive, una massa che era libera in un duplice senso: libera dagli antichi rapporti di clientela, di servitù e di dipendenza personale, e inoltre libera di ogni avere e di ogni forma di esistenza oggettiva e materiale (pag. 489). Col passo successivo il grande proprietario fondiario allaccia rapporti col nuovo mondo del valore di scambio nella forma della ricchezza monetaria che si accumulava nelle mani del mercante: anziché dissipare col suo seguito i prodotti dei servi, egli vendette al mercante i suoi cereali, il suo bestiame, ecc., contro valori di scambio importati dall'estero. Fu il mercante a dargli coscienza dell'importanza sempre più grande del valore di scambio del suo reddito, e questo in due sensi: da un lato facendogli balenare i prodotti stranieri, puro valore di scambio, e quindi stimolando in esso bisogni diversissimi e continuamente crescenti, dall'altro indicandogli il modo di procurarsi denaro, trasformando il suo reddito (plusvalore estorto ai servi sotto forma di valori d'uso) in valori di scambio. Questo esempio del proprietario fondiario feudale che si trasforma in grande proprietario fondiario capitalista richiama due osservazioni: 1. egli cambia pelle, passando dal modo di appropriazione feudale a quello capitalista. Resta proprietario fondiario e diviene semplicemente borghese inserendo tra sé e il bracciante il fittavolo capitalista che lavora per denaro e porta il capitale d'intrapresa. Egli percepisce ormai una rendita fondiaria che viene dedotta dal plusvalore estorto al bracciante salariato. Ne costituisce una forma di transizione il rapporto di rentier nei confronti del mezzadro; 2. questa mutazione ha potuto realizzarsi per transizione, ma è fondamentale, poiché rappresenta la dissoluzione del pilastro stesso della proprietà fondiaria feudale sotto l'azione corrosiva del valore di scambio – del denaro – sulla base del mercato mondiale, che a sua volta si era già sviluppato col grande commercio marittimo e terrestre, che fu il presupposto del modo di produzione capitalistico. Questa transizione del proprietario fondiario feudale è mediata dall'azione del mercante. Non a caso le due prime teorie del capitale sono la fisiocratica e la mercantilista, laddove il mercantilismo faceva nascere il plusvalore dallo scambio delle merci, dal commercio, che era allora rivoluzionario e creava le vie di comunicazioni mondiali per mare e per terra. Mercato e manifatture È ancora il mercante che creerà, per le manifatture che producono articoli in serie, la sollecitazione di un grande mercato e introdurrà il valore di scambio nella produzione che fino a quel momento si era essenzialmente preoccupata del valore d'uso dei prodotti. Sarà in rapporto alla forma più avanzata del modo di produzione feudale – l'artigianato (in cui il valore di scambio si era più ampiamente e spontaneamente sviluppato) – che si farà in maniera più radicale la rottura tra modo feudale di appropriazione e modo capitalista. Il modo di produzione capitalistico vi apporta infatti una forma affatto nuova del processo di produzione, la manifattura e la fabbrica che creano articoli che la produzione artigianale con le sue corporazioni non può produrre: vetro, ferro, articoli manufatti in serie. È noto che le corporazioni frapponevano innumerevoli ostacoli allo sviluppo del valore di scambio: proibizione della libera vendita degli strumenti, segreto dei procedimenti di mestiere, divieto di impiegare lavoranti oltre un determinato numero. Il passaggio al capitalismo comporta perciò la disgregazione delle corporazioni medievali con la previa separazione del produttore dal suo strumento di lavoro. Si tratta dunque qui di una vera e propria rivoluzione nei rapporti sociali, come si manifesta ad esempio nel fatto che la produzione industriale del capitalismo nasce non nelle città medievali delle corporazioni artigianali, bensì nelle campagne o nei porti collegati al mercato mondiale: in un primo tempo la manifattura non investe l'artigianato urbano, ma l'industria accessoria – non corporativa – della campagna, la filatura e la tessitura, ossia quel lavoro che meno di tutti richiede abilità professionale e formazione tecnica (pag. 494). Le prime manifatture capitalistiche sorsero sporadicamente nelle città che attraverso il commercio mondiale erano collegate al valore di scambio, cioè nelle prime nazioni mercantili borghesi: là dove si produce in massa per l'esportazione, per il mercato estero, dunque sulla base del grande commercio marittimo e terrestre, nei suoi empori – come nelle città italiane, a Costantinopoli, nelle città fiamminghe, olandesi, in alcune città spagnole come Barcellona ecc. (pag. 493). Ma in generale la manifattura stabilisce le sue prime sedi non nelle città, ma nella campagna, nei villaggi dove non esistono corporazioni ecc. L'attività accessoria della campagna rappresenta la larga base della manifattura, mentre nella città i mestieri hanno un alto sviluppo e si oppongono alla pratica del sistema manifatturiero con le sue operazioni semplici di una produzione di serie per un vasto mercato. Le prime manifatture borghesi – come quella tessile, le vetrerie, le fabbriche metallurgiche, le segherie ecc. – annunciano nuovi settori di produzione che niente hanno a che vedere con la produzione artigianale dei mestieri del Medioevo. Queste nuove branche richiedono infatti fin da principio una più elevata concentrazione di manodopera semplice, di materie prime e di risorse naturali; esse nascono anzitutto nei porti o nei villaggi (che si trasformano man mano in centri capitalistici) ed esigono scarsissima abilità professionale e formazione tecnica. A rigore, la manifattura si impianta nei sobborghi, ai margini della città corporativa, là dove si ammassa la plebe liberatasi dalle costrizioni medievali, contadini espropriati, servi fuggiaschi, mendicanti e piccolo-borghesi impoveriti – proprio come accade oggi nelle bidonvilles dell'Africa e dell'America del Sud. Non è dunque sullo slancio dell'artigianato che si è sviluppata l'industria capitalistica, bensì sulla base del commercio e del mercato mondiale, a un grado di sviluppo determinato del valore di scambio, il quale, dopo aver reso alienabile la terra, ha strappato gli strumenti di lavoro alle corporazioni di artigiani, per gettarli sul mercato dove il capitalista potrà comprarli e soprattutto, dopo aver espropriato i produttori, trasformarli in nuda forza lavoro, ossia in merce, acquistabile dal capitalista per far funzionare il processo di produzione. Il mercato domina la produzione Questa fase, teorizzata dai sistemi monetari e mercantili, corrisponde all'apice storico del Portogallo e dell'Olanda, all'epoca della creazione del mercato mondiale e degli Imperi coloniali dipendenti dal capitalismo bianco. La produzione capitalistica potrà iniziare allorché tutte le parti integranti del processo di lavoro – oggetto del lavoro, mezzo di lavoro e forza lavoro – possono essere comprate sul mercato come merci, ossia quando sono diventate valori di scambio. Perciò, inversamente a quanto avviene oggi, al primo stadio della società capitalistica il commercio domina l'industria, poiché il mercante prevale sul capitalista in spe (in divenire). Il commercio mina infatti sempre più le condizioni di produzione e i rapporti sociali delle comunità che vi partecipano; sottomette sempre più la produzione al valore di scambio, facendo dipendere godimento e sussistenza dalla vendita e dal mercato anziché dal consumo autosufficiente delle piccole unità di produzione. Esso disgrega con ciò le vecchie condizioni di vita e di produzione e accresce la circolazione. Si impadronisce non più semplicemente dell'eccedenza della produzione, ma a poco a poco investe la produzione stessa e sottomette al suo potere interi rami di produzione [1]. E Marx prosegue: L'improvvisa espansione del mercato mondiale all'epoca della scoperta dell'America, la moltiplicazione delle merci in circolazione, la rivalità fra le nazioni europee per impadronirsi dei prodotti dell'Asia e dei tesori dell'America, il sistema coloniale, contribuirono in larga misura a spezzare le pastoie feudali della produzione. Ciò nonostante nella sua prima fase, ossia quella della manifattura, il modo di produzione moderno si sviluppò unicamente là dove se ne erano create le condizioni nel corso del Medioevo: si confronti ad esempio l'Olanda con il Portogallo (ibid.). E Marx precisa che l'Olanda aveva rispetto al Portogallo migliori premesse per passare allo stadio della produzione manifatturiera del capitalismo, grazie al ruolo decisivo che, accanto al commercio, svolgevano ivi la pesca, la manifattura e l'agricoltura, dopo che corporazioni e artigianato avevano raggiunto l'apogeo del loro sviluppo nel XIV secolo. In Portogallo, invece, sulle condizioni interne di produzione in divenire verso la forma capitalista prese il sopravvento il commercio mondiale, poiché il carattere mercantile venne rafforzato dal saccheggio d'oltremare, dal commercio degli schiavi e dalla conquista di un vasto impero coloniale, le cui ricchezze affluirono nella metropoli rendendo inutili le manifatture [2]. Passaggio dal mercato alla produzione Neppure l'Olanda però, nonostante le sue favorevoli condizioni, riuscì a superare la prima fase del capitale mercantile. Nella lunga lotta per il passaggio alla produzione capitalistica che vide alle prese Olanda e Inghilterra, è quest'ultima a prevalere, e d'allora in poi il commercio è legato alla preponderanza più o meno grande delle condizioni della grande industria. Due cause provocarono la sconfitta olandese: da una parte l'alleanza dell'Inghilterra con la Russia, il bastione del feudalesimo in Europa che seppe impedire l'installarsi sul continente del primo capitalismo industriale, dall'altra il fatto che l'Inghilterra poté disporre di un mercato nazionale del lavoro dopo l'espropriazione in piena regola delle popolazioni rurali, le quali potevano ormai vivere soltanto salariandosi nelle manifatture e nelle fabbriche che lavoravano per il mercato mondiale. L'Inghilterra evitò così di doversi rifornire in America, in Africa e in Asia di prodotti di ogni specie, come fece ad esempio il Portogallo, che rimase allo stadio mercantile, dopo aver creato la base del mercato mondiale per la futura produzione capitalistica. La storia del declino del Portogallo e dell'Olanda in quanto nazioni coloniali e mercantili, è la storia della subordinazione del capitale commerciale al capitale industriale (ibid.). Ma soffermiamoci ancora su questo passaggio alla produzione capitalistica che, fondamentalmente, corrisponde alla trasformazione del denaro in capitale, ossia sul passaggio dalla circolazione mercantile alla produzione di merci: dal valore di scambio tra equivalenti nella circolazione si passa al valore di scambio con la produzione di plusvalore nel processo di lavoro capitalistico. Consideriamo questo processo. Estensione del valore di scambio alla forza lavoro Si arriva alla produzione capitalista quando la forza lavoro è proletarizzata e trasformata in attività salariata. In tutto questo processo il capitalista in divenire media semplicemente la congiunzione, fusione o saldatura tra la circolazione (donde egli trae la ricchezza monetaria, il valore di scambio e la forma-merce) e la produzione (che il capitalista non ha creato: egli trova sparse davanti a sé le parti integranti del processo di produzione, la forza lavoro, l'oggetto del lavoro e il mezzo di lavoro dissociati dalla loro anteriore unità nella forma feudale attraverso il processo dell'accumulazione originaria, che è anzitutto processo di corrosione). Ecco come storicamente e concretamente il denaro si trasforma in capitale. Un mercante, ad esempio, fa lavorare per sé un certo numero di filatori e tessitori che fino ad allora avevano esercitato la filatura e la tessitura come semplice attività ausiliaria. Egli dà loro abbastanza lavoro perché questa attività domestica collaterale divenga la loro fonte di guadagno principale. Da questo momento egli li ha in pugno: aumentando ad esempio i prezzi delle sue forniture e ribassando il prezzo del prodotto dei filatori e dei tessitori, egli li rovina e li mette ai suoi ordini in un'officina. In questo semplice processo si vede chiaramente che egli non ha approntato né materie prime, né strumenti, né mezzi di sussistenza per il filatore e il tessitore. Tutto quello che ha fatto è di averli progressivamente limitati a un tipo di lavoro (produzione di un solo valore di scambio) in cui essi vengono a dipendere dalla vendita – ossia dal compratore, dal mercato divenuto Verleger (accomandante del lavoro) – e infine producono soltanto per essa e tramite essa (pag. 493). Si tratta dell'estensione del valore di scambio fino all'ultimo elemento componente il processo di produzione: la forza lavoro. In origine il mercante comprava il loro lavoro solo comprando il loro prodotto; non appena essi limitano la loro produzione a un solo valore di scambio, e quindi devono produrre immediatamente valore di scambio e scambiare completamente il loro lavoro con denaro per poter sopravvivere, cadono sotto la sua sferza, e svanisce anche la parvenza che essi gli vendessero dei prodotti. Il mercante compra il loro lavoro e toglie loro dapprima la proprietà del prodotto, in seguito anche quella dello strumento (ibid.). Possiamo ora assistere al primo ciclo di produzione capitalistica, al processo della genesi della produzione capitalistica. La forma di produzione e di società capitalistica si riproduce a partire dalle sue proprie premesse portate a compimento. Si tratta dei due cicli che Marx descrive dettagliatamente nei Grundrisse sulla genesi del Capitale e la sua riproduzione ulteriore (pagg. 205-210): 1. la circolazione e lo scambio proveniente dalla circolazione in quanto presupposti del capitale; 2.il valore di scambio proveniente dalla circolazione la presuppone, si conserva e si moltiplica in essa mediante il lavoro. A questo punto dobbiamo fornire alcune definizioni economiche della produzione capitalista di merci. Marx dice che ogni merce uscita dal processo di produzione capitalista ha un valore determinato dal suo prezzo di produzione (che ingloba il plusvalore, cioè le ore di lavoro pagate e anche non pagate, giacché entrambe sono indispensabili alla produzione della merce). A voler essere esatti, bisognerebbe ormai parlare di valore di produzione anziché di valore di scambio, perché noi siamo per la teoria della produzione e non della circolazione delle merci. Conserviamo tuttavia il termine di valore di scambio che distingue chiaramente il valore venale del valore d'uso (inerente alle specifiche qualità fisiche della merce e al particolare bisogno umano che è atta a soddisfare). Definiamo il valore del prodotto attraverso la somma di tre termini: 1. il capitale costante; 2. il capitale variabile o salario; 3. il sopralavoro o plusvalore o profitto. I tre elementi si riducono all'ora di lavoro vivo, giacché sia il capitale costante che il sopralavoro sono prodotti dal lavoro vivo. Per quanto riguarda il profitto, bisogna determinare il suo tasso medio, poiché è determinato sul mercato, come media sociale, il che ammette degli scarti (o sovraprofitti) se le condizioni di produzione – per esempio la produttività – dell'uno sono superiori alla media. 2. PRODUZIONE DI PLUSVALORE E SVALORIZZAZIONE Ormai il capitale ha come fine l'autoriproduzione: suo scopo essenziale è dunque la produzione di capitalisti e di lavoratori, ossia la riproduzione degli stessi rapporti sociali di proprietà e di non-proprietà, indispensabili alla produzione capitalistica. L'economia politica corrente, che guarda soltanto alle cose prodotte (oggetti, merci), trascura completamente questo fatto. Perché un nuovo ciclo di riproduzione possa incominciare, occorre che il lavoro, alla fine del processo di produzione, si trovi di nuovo posto come nuda forza lavoro e come proprietà di una volontà ad esso estranea (quella del capitalista). Il capitale è necessariamente al tempo stesso capitalista; all'inizio le condizioni della produzione stavano di fronte all'operaio come capitali nella misura in cui egli le trovava preventivamente oggettivate davanti a sé; ora è il prodotto del proprio lavoro che si trova dinnanzi come condizioni della produzione trasformate in capitale. Ciò che era premessa è diventato risultato del processo di produzione. Riproduzione aggravata di rapporti La produzione capitalistica è essenzialmente produzione e riproduzione del rapporto di produzione specificamente capitalistico. Ma, come sappiamo, la produzione non è assolutamente identica alla riproduzione del capitale, poiché: Dire che il processo di produzione crea capitale è un altro modo di esprimere il fatto che esso crea plusvalore. Ma la questione non si riduce a questo. Lo stesso plusvalore è riconvertito in capitale addizionale nella riproduzione allargata del capitale. Il capitale non produce dunque solo capitale, ma anche una massa crescente di operai come materia che sola gli permette di fungere da capitale addizionale. Ne segue che non soltanto il lavoro produce in antitesi a se stesso, su scala sempre più larga, le condizioni del lavoro come capitale, ma il capitale produce su scala crescente i lavoratori salariati produttivi di cui ha bisogno. Il lavoro produce le proprie condizioni di produzione come capitale, e il capitale produce il lavoro sotto forma salariata come mezzo per realizzarsi in quanto capitale. La produzione capitalistica non è soltanto riproduzione del rapporto; è sua riproduzione su scala sempre più estesa, poiché è produzione di plusvalore [3]. > |
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Il lavoro di William Hogarth
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Quando si riproduce, il capitale è dunque diverso, poiché lo fa in maniera allargata, crescendo incessantemente: il suo valore di scambio non rimane uguale a se stesso come nella circolazione delle merci o commercio; esso non cessa di aumentare, e a un momento dato della sua crescita la quantità si trasforma in una diversa qualità, si muta nel suo contrario: si svalorizza. Il movimento del suo sviluppo è anche il movimento delle sue crisi, come il processo della sua valorizzazione è anche quello della sua svalorizzazione e della sua dissoluzione.
Processo di negazione
Se insistiamo tanto sul carattere dissolutivo del capitale fin dal suo inizio, come suo momento immanente, è perché sappiamo che il comunismo è il prodotto di questa dissoluzione del capitalismo, come appare chiaramente dalla sua legge fondamentale del valore determinata dall'ora di lavoro che implica già svalorizzazione non appena il valore di scambio passa dal processo di circolazione nel processo di produzione capitalistico che è creazione di plusvalore.
Così, il modo di produzione che succederà al capitalismo – il comunismo – si definisce per Marx come negazione, dissoluzione ed eliminazione del valore di scambio, del denaro, del mercato, del salariato e del profitto. Come il capitale ha dissolto le economie precapitalistiche, così, nel proprio movimento, esso si autodissolve, e la rivoluzione politica non è che l'esecutore della sentenza di morte che esso stesso ha emesso. Ora, siccome il capitalismo è la base materiale, economica, del modo di produzione comunista, si capisce perché – come più volte abbiamo detto – il Manifesto del 1848 è anche l'apologia della borghesia. Dobbiamo tessere l'apologia dell'imputato per concludere che è tempo di dannarlo alla pena massima, perché secondo la nostra dottrina rivoluzionaria, il comunismo è figlio del capitalismo e non poteva che da lui generarsi, e malgrado ciò, anzi proprio per ciò, deve combatterlo ed abbatterlo; che i tempi storici della svolta e del rovesciamento delle posizioni si pongono per effetto di condizioni e rapporti materiali [4]. Ma prima di analizzare, nel processo di sviluppo del capitale, quali sono le sue leggi e il loro divenire, consideriamo il divenire delle due classi antagoniste, riprodotte su scala sempre più estesa ai due poli del capitale in ciascuno dei suoi cicli di riproduzione, e vedremo immediatamente che l'una – quella che rappresenta la massa della miseria – tende senza sosta ad aumentare, mentre quella dei capitalisti — polo della ricchezza – non cessa di decrescere. Il capitale non riproduce lo stesso rapporto tra lavoro e capitale; continua anzi a moltiplicare gli operai e a diminuire il numero dei capitalisti. Con questa constatazione Marx chiude il capitolo sull'accumulazione nel primo libro del Capitale. Gettiamo anzitutto uno sguardo su ciò che si produce al polo dei lavoratori salariati:
Su questo slancio: la rivoluzione proletaria risolve le contraddizioni: il proletariato si impadronisce del potere politico e, facendo leva su di esso, trasforma i mezzi sociali di produzione, che sfuggono dalle mani della borghesia, in proprietà pubblica. Con quest'atto, il proletariato spoglia i mezzi di produzione dal carattere di capitale che sinora essi avevano e dà al loro carattere sociale la piena libertà di esplicarsi nello sviluppo ulteriore. Ormai diviene possibile organizzare la produzione sociale conformemente ad un piano prestabilito (ibid.). Nel corso della crisi economica, i borghesi si dimostrano superflui perché fanno fallimento e non sono più in grado di dirigere le loro imprese, e a livello sindacale si pone concretamente la questione di rimpiazzarli con una gestione operaia. Alla fine del secolo scorso, Engels scrisse diversi articoli per mostrare come questa evoluzione doveva condurre all'abolizione del salariato o dei rapporti di dominio capitalistici [7]. 3. LEGGI DELLO SVILUPPO CAPITALISTICO Col processo dell'accumulazione capitalistica abbiamo visto che il capitale si sviluppa essenzialmente dissolvendo le forme di produzione e di appropriazione precapitalistiche. In seguito, concentrandosi e sviluppandosi, esso attacca gli stessi rapporti capitalistici. Le sue contraddizioni sono il motore del suo sviluppo. Ne è prova il semplice fatto che il proletariato, classe spogliata di ogni proprietà, crea la ricchezza, per l'opposto polo dei non produttori: la borghesia non può esistere senza rivoluzionare costantemente gli strumenti di produzione, dunque i rapporti di produzione, dunque l'insieme delle condizioni sociali, mentre la prima condizione d'esistenza di tutte le classi dominanti e attive precedenti era al contrario l'immutata conservazione del vecchio modo di produzione. Valore di scambio e lavoro umano In mezzo agli incessanti rivolgimenti cui il modo di produzione capitalistico è assoggettato, vi è un punto di riferimento, un campione centrale e unitario di misura e di paragone per tutti i rapporti esprimentisi alla fin fine in una somma di denaro. Il capitale dispone in tal modo di un mezzo potente di livellamento di tutte le cose che esso riduce a un solo e medesimo criterio: la legge del valore di scambio, che collega tutte le cose diventate merci, il cui carattere comune è di essere tutte prodotto del lavoro umano. Il valore realizza la saldatura tra mercato e processo di lavoro, circolazione e produzione. Esso è per così dire predeterminato in confronto alla circolazione delle merci, è un momento della produzione, perché le merci sono semplici materializzazioni del lavoro sociale che hanno incorporato. Il valore si distingue dal prezzo, perché la merce ha un valore determinato, calcolabile in base al tempo di lavoro sociale medio che serve a produrla. Perciò il valore realizza l'unità, e questo processo del valore è un processo di livellamento unitario di cui il capitale è la sintesi. Questo processo è il prodotto di tutte le forme di produzione anteriori. Così nella forma schiavista, la terra – oggetto di lavoro – era divenuta una merce alienabile sul mercato; nella forma artigianale, lo erano divenuti a loro volta lo strumento e il prodotto del lavoro, e nel corso della fase di accumulazione, contrariamente a quanto accadde per lo schiavo, a divenire una merce fu non il lavoratore, ma la sua forza lavoro, spogliata di tutti i suoi legami con i mezzi di produzione e con la terra. La stessa legge del valore di scambio si trasformò allora divenendo capitalistica, poiché il capitale è produzione non di equivalenti ma di plusvalore. Dato che il mercato mondiale forma la larga base e il punto di partenza della produzione capitalistica nella successione delle forme di produzione, la legge del valore di scambio predomina in tutti i rapporti capitalistici che rivestono da allora in poi la forma di merce. Il valore di scambio non è dunque una proprietà inerente alle cose, ma è il riflesso dei rapporti di organizzazione della società: gli oggetti sono merci perché esiste un sistema storicamente determinato (e transitorio) di rapporti tra gli uomini che li producono e li consumano. Tuttavia non si può misurare il valore di scambio di una merce se non riferendosi al lavoro che essa contiene, e il lavoro umano non può essere misurato se non come tempo di lavoro, attraverso le sue ore di lavoro. Il lavoro diventa così il "comune denominatore" di tutte le merci prodotte: materie prime filtrate dal lavoro, strumenti e macchine fatte dal lavoro, i prodotti del lavoro. Nella stessa terra è incorporato lavoro per occuparla, migliorarla e prepararla, di modo che essa acquista un valore che aumenta con le generazioni: essa rende, per questo, più di un'altra, prescindendo dal lavoro necessario per la nuova produzione. Ma non si tratta del tempo di lavoro occasionalmente impiegato per produrre una data merce, bensì del tempo di lavoro medio necessario occorrente a riprodurla, in una società data, cioè del tempo di lavoro socialmente necessario, poiché ci si trova sul mercato, in concorrenza con gli altri articoli prodotti. Questo tempo di lavoro sociale medio si esprime, nel corso dello sviluppo dei rapporti mercantili, in una merce privilegiata che serve come campione di misura per tutte le altre, il denaro. Insomma, si rapporta la misura cercata al valore dell'oro, cioè, secondo l'ipotesi, al tempo di lavoro necessario per produrre l'oro. Lo stesso termine di comparazione è dunque variabile, per cui possono prodursi delle oscillazioni generali, di facile interpretazione. In conclusione, quando parliamo del tempo di lavoro necessario, dobbiamo distinguerlo dal tempo di lavoro occorrente a produrre una determinata merce: questo tempo può essere superiore o inferiore a seconda della produttività del lavoro e i segreti di fabbricazione del produttore. Per imporsi sui concorrenti, il capitalista introdurrà dei cambiamenti tecnici nel processo di lavoro, che faranno abbassare il suo tempo di lavoro necessario in confronto al tempo di lavoro socialmente necessario (valore) espresso dal prezzo medio dell'articolo sul mercato – il che gli procura un sovraprofitto dovuto all'accresciuta produttività in confronto a quella dei suoi concorrenti. Così, sotto il capitalismo, l'accrescimento della produttività o delle forze produttive sociali del lavoro è stimolato da un sovraprofitto che ricompensa ogni miglioramento tecnico. In un primo tempo, sul mercato, il capitalista farà dunque un sovraprofitto, perché il costo di produzione della sua merce – incluso il suo profitto normale – sarà minore perché il prezzo dell'articolo è fissato dalla media sociale. Questo sovraprofitto durerà finché i suoi concorrenti capitalisti non avranno raggiunto lo stesso livello di produttività, sì che il prezzo della merce sul mercato (valore) scenderà per tutti. Il sovraprofitto allora sparirà, e l'insieme della società beneficierà gratis dell'accrescimento della produttività (il che prefigura il modo di distribuzione comunista), e si avrà una svalorizzazione relativa della merce. Questo movimento è generale nel corso del capitalismo ed è dovuto alla crescita delle forze produttive che mina la forma privata dell'appropriazione borghese. È quanto appare chiaramente nella fase progressiva del capitale, mentre nella sua fase senile, parassitaria e redditiera, il capitale ha la tendenza non ad abbassare i prezzi, bensì ad aumentarli, come si vede nell'inflazione generalizzata di questo periodo di crisi [8]. Il plusvalore, fonte della svalorizzazione Consideriamo come procede il capitalista: egli va sul mercato e vi compra (comando) – al loro giusto prezzo e valore, poiché siamo nella circolazione, sul mercato – le materie prime, gli strumenti di lavoro e la forza lavoro. Qual è ad esempio il valore di quest'ultima? È la somma necessaria alla riproduzione del lavoratore, cioè: 1. i mezzi atti ad assicurare la sua sussistenza personale, ossia gli alimenti e un minimo di soddisfacimento di altri bisogni; 2. i mezzi di sussistenza per la sua famiglia, senza di che si estinguerebbe la classe dei lavoratori; 3. una educazione professionale che comporta tempo e spese. Questa somma costituisce il salario o capitale variabile (cf. lo schema annesso alla fine di questo testo, in cui il capitale variabile corrisponde alla qualificazione della forza lavoro sotto il capitalismo) che non è dunque determinato in funzione del valore degli articoli prodotti dalla forza lavoro, come suggerisce il moderno salario a cottimo. Occorre fare qui una distinzione tra capitale variabile e capitale costante, ossia le materie prime e gli strumenti di lavoro. Le materie prime sono di due specie: alcune trapassano nel prodotto, altre scompaiono nel corso della loro utilizzazione e sono le materie ausiliarie, come i combustibili, ecc. Questa parte del capitale è detta costante perché il denaro anticipato dal capitalista per acquistare i mezzi di produzione riappare integralmente nel prezzo del prodotto. Così gli strumenti di lavoro come macchine, installazioni, edifici vengono prese in considerazione unicamente per la frazione del loro valore consumata o spesa durante il processo di lavoro considerato. Il denaro anticipato per il salario – acquisto della forza lavoro – ricompare invece nella vendita dei prodotti aumentato del plusvalore. Perciò lo chiamiamo capitale variabile. Possiamo ora considerare la fonte della ricchezza e di ogni valore – il tempo di lavoro. Esso contiene due porzioni: da una parte il lavoro necessario, ossia il tempo durante il quale l'operaio deve lavorare per trasmettere al prodotto un valore esattamente uguale a quello che gli è stato pagato per la sua forza lavoro, poniamo 6 ore, nel corso delle quali egli riprodurrà dunque un valore uguale a quello dei prodotti necessari alla sua sussistenza e a quella della propria famiglia. Ma l'operaio lavora 10 ore, in cui noi distinguiamo 6 ore di lavoro necessario e 4 ore di sopralavoro o lavoro extra, corrispondente al plusvalore che egli ha creato durante una giornata. Il plusvalore non è dunque nient'altro che lavoro effettuato per un certo numero di ore e non pagato all'operaio, ma che si ripercuote nel prezzo di produzione dei prodotti, il quale comprende dunque nei suoi costi di produzione il plusvalore. La legge del valore di scambio tra equivalenti sotto il capitalismo non implica dunque in nessun momento che l'operaio riceva il giusto valore del suo lavoro, ossia il pieno prodotto: pura utopia e rivendicazione inapplicabile, perché si risolverebbe semplicemente in un aumento del salario minimo senza che il capitale possa riprodursi su scala allargata e accrescere le forze produttive, mentre continuerebbero a sussistere più o meno le stesse manchevolezze presenti nel sistema capitalistico dello scambio tra equivalenti, di cui si conserverebbe la base con la pretesa di averla epurata dall'ingiustizia. L'unica soluzione sta invece per il marxismo nell'abolizione dei rapporti capitalistici e del salariato, cui già tende d'altra parte la stessa economia capitalistica. Proprio dalla legge del valore e dal suo fondamento – il tempo di lavoro – partono gli elementi di dissoluzione e le contraddizioni che minano la base fondamentale del capitalismo, generando il germe del superiore modo comunista nel seno stesso della produzione capitalistica allorché la valorizzazione si trasforma in svalorizzazione.
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[1] . Cf. Marx, Il Capitale III, cap. 20: Cenni storici sul capitale commerciale.
[2] . La Francia fu ad esempio spogliata della maggior parte delle sue colonie dall'Inghilterra divenuta manifatturiera, e operò un brillante passaggio al capitalismo con la rivoluzione borghese del 1789. Tuttavia, per paura del proletariato che andò all'assalto del potere già nel 1793-94, poi nel 1830, 1847, 1870, la borghesia rinculò davanti all'industrializzazione che faceva crescere sempre più il proletariato, per lanciarsi con la sua potenza militare moderna alla conquista di un vasto impero coloniale. Solo dopo la perdita del suo impero – soprattutto dopo la guerra d'Algeria – la Francia è stata costretta a industrializzarsi ad oltranza: cf. La crise économique et sociale de Mai 1968, in Fil du Temps, n. 3, Parigi 1968. [3] . Tutta questa pagina è tratta grosso modo da: Il Capitale- libro I capitolo sesto inedito di Marx, Firenze 1974, p. 95-99. [4] . Cf. Sul filo del tempo: Il Marxismo dei Cacagli, in Battaglia Comunista, n. 8 del 1952. |
[5] . Cf. Marx, Il Capitale I, cap. XXIV, 7, Tendenza storica dell'accumulazione capitalistica.
[6] . Cf. Engels, Anti-Dühring, sez. III, 3. in Opere vol. XXV, Roma 1974, p. 274. [7] . Cf. Classi sociali necessarie e superflue e Le dimissioni della borghesia, nel nostro precedente testo: Critica della corrotta prassi dei sindacati, voi. II, p. 157-165, che raccoglie numerosi scritti di Marx-Engels sul sindacalismo. [8] . Marx ha teorizzato questo capovolgimento del capitale progressivo in capitale redditiero (che, con i suoi monopoli, fa sì che nell'industria, come prima in agricoltura, l'impresa meno produttiva determini il prezzo corrente di mercato, il che moltiplica i sovraprofitti o rendite) nella sua critica di Malthus, il teorico della classe dei proprietari fondiari, mentre Ricardo era il teorico della classe dei borghesi industriali che voleva statizzare la rendita. Cf. Marx-Engels, Critique de Malthus, Ed. Maspéro, Parigi, 1977. |
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